Nel contesto culturale giapponese, il tema del “lasciare andare” non è trattato come un gesto drammatico o definitivo, ma piuttosto come parte integrante del modo in cui si affrontano i cambiamenti della vita. Non si tratta di un concetto unico o sistematizzato, ma di una serie di principi e sensibilità che attraversano estetica, linguaggio, filosofia e quotidianità.
Questo approccio non ha a che fare con l’auto-aiuto o con la crescita personale nel senso occidentale del termine, quanto con una visione del mondo che accetta la transitorietà delle cose come un dato di fatto.
In Giappone, l’impermanenza è qualcosa con cui si convive e che si osserva con attenzione, più che con nostalgia o resistenza.
La consapevolezza dell’impermanenza: mono no aware
Uno dei concetti più rappresentativi è mono no aware, espressione che potremmo tradurre come “la sensibilità nei confronti della transitorietà delle cose”. Non indica una tristezza intensa, ma piuttosto una percezione fine del fatto che tutto ciò che esiste è destinato a cambiare.
Il fiore di ciliegio è l’esempio più utilizzato per spiegare questo concetto: la sua bellezza è legata proprio alla brevità della fioritura. Nonostante la rapidità con cui i petali cadono, ogni anno milioni di persone partecipano all’hanami, l’osservazione collettiva dei ciliegi in fiore.
Non si cerca di prolungare il momento, ma lo si vive con consapevolezza.
In questo senso, mono no aware non è un’esaltazione della perdita, ma una forma di attenzione lucida verso ciò che cambia, in un contesto dove il valore di qualcosa è spesso collegato alla sua natura temporanea.
L’accettazione dell’imperfezione: wabi-sabi
Collegato al tema del cambiamento, wabi-sabi è un principio estetico che valorizza l’incompleto, l’imperfetto e l’invecchiato. Nella pratica, si traduce in oggetti, ambienti o composizioni visive che non cercano la simmetria o la finitura, ma che esprimono una bellezza essenziale, sobria e naturale.
Questa idea ha un risvolto culturale piuttosto ampio, che va oltre l’estetica.
Wabi-sabi favorisce un certo tipo di relazione con le cose, dove non c’è bisogno di conservare ogni cosa nello stato ideale.
L’usura, la trasformazione, persino il deterioramento, sono elementi accettati come normali, e talvolta apprezzati per la loro capacità di raccontare una storia.
Da questa prospettiva, lasciar andare non significa buttare o dimenticare, ma riconoscere che qualcosa ha cambiato forma o funzione, e non ha più lo stesso ruolo di prima.
La trasformazione attraverso la rottura: kintsugi
Un’applicazione concreta di questo atteggiamento si ritrova nella tecnica del kintsugi, che prevede la riparazione di oggetti in ceramica con lacca e polvere d’oro. L’oggetto rotto non viene ripristinato alla condizione originaria, ma viene ricomposto in modo visibile, mettendo in evidenza le crepe.
Il valore dell’oggetto riparato non è inferiore a quello originale, al contrario!
In alcuni casi esso aumenta proprio perché l’intervento di restauro lo rende unico. È un modo per attribuire continuità a qualcosa che ha subito una rottura, senza negare o cancellare l’evento.
Nel contesto della vita quotidiana, kintsugi viene spesso usato come metafora per descrivere situazioni in cui si accetta l’interruzione di un percorso e si costruisce qualcosa di nuovo, senza nascondere quello che è accaduto.
Il rispetto per ciò che ha avuto un valore: mottainai
Un altro termine legato alla gestione del distacco è mottainai, che esprime il dispiacere per lo spreco di qualcosa che ha ancora valore. In origine, è legato al rifiuto dello spreco materiale, ma nel tempo ha assunto anche significati più ampi, riferiti al tempo, all’attenzione e persino alle emozioni.
Nel contesto del lasciare andare, mottainai diventa un promemoria per non svalutare ciò che si è deciso di superare.
Lasciare qualcosa non implica che non sia mai servita. Anzi, riconoscerne l’utilità passata è parte del processo.
L’oggetto, l’esperienza o il rapporto vengono trattati con rispetto, anche quando non sono più funzionali nel presente. Questo atteggiamento evita la svalutazione retroattiva e contribuisce a ridurre l’attrito con il cambiamento.
Il ruolo del vuoto: ma
Un elemento spesso trascurato ma centrale nel pensiero giapponese è ma, il concetto di “spazio tra le cose”.
Non si tratta di una semplice assenza, ma di uno spazio che ha una funzione, come il silenzio in una conversazione o il respiro tra due azioni.
Nel design, ma si traduce in un uso equilibrato degli spazi vuoti, mentre nella vita quotidiana si riflette nella capacità di non riempire immediatamente ogni interruzione. Lasciare andare, da questo punto di vista, non obbliga a sostituire subito ciò che è venuto meno.
Lo spazio che si crea può restare tale per un po’, e non è necessariamente negativo. Anzi, è spesso proprio il vuoto che consente l’emergere di nuove possibilità.
Un insieme di pratiche, non una teoria
Tutti questi concetti non formano un’unica dottrina, né offrono istruzioni precise. Sono piuttosto tracce culturali, modi di leggere la realtà, che nel tempo si sono tradotti in comportamenti, riti e scelte estetiche.
In Giappone non esiste un manuale per “imparare a lasciar andare”. Ma il modo in cui si vive la stagionalità, si conservano gli oggetti o si accetta il deterioramento dice molto su come viene gestito il cambiamento.
Questo approccio può risultare utile anche in un contesto diverso. Non tanto per imitarlo, quanto per prenderne spunto. Può essere un’occasione per osservare con più attenzione i momenti di transizione, e per valutare quando sia davvero necessario trattenere, e quando invece sia meglio fare spazio.
